Oggi è la giornata della malinconia. Complice il tempo, presumo. Oggi non vale la pena analizzare nulla perché tutto appare gigante e assume i toni della tragedia, dell’offesa e dell’enormità.
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Ma capita. Sarebbe strano fosse sempre sereno, il mio approccio alle cose delle vita, intendo… non il cielo, eh.
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Ho aperto un taccuino di un anno fa. In treno e verso il mare, annotavo frasi e facevo disegni infantili. Me lo ricordo benissimo quel viaggio: avevo di fronte un passeggero coreano intento a mugugnare incessantemente. Sospirava come uno sfiatatoio e pronunciava frasi a mezza voce che suonavano come tristissime (lo dico con il beneficio del dubbio poiché il coreano non lo conosco); ogni tanto si fermava con i pensieri in un punto qualsiasi del nulla cosmico e con la bocca formava un arco perfetto. Non era tristezza, quanto piuttosto malinconia.
Mangiai un panino di gomma con una salsa rosa ingestibile (a Pollock sarebbe piaciuta) e annotai che la penna con cui scrivevo lasciava degli antiestetici grumi di inchiostro lungo le righe. Insomma, nessun canovaccio per una ipotetica nuova Divina Commedia. Però scrissi in stampatello: LA SAUDADE è COREANA.
La saudade non ha nazionalità, quando prende il cuore in una morsa inspiegabile non resta che rispondere all’appello e farsi cullare da una canzone che la renda un’esperienza meritevole e coerente.
Buona serata, Amici!
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