Ieri ad un tratto mi è venuto in mente Romano, uno dei più cari amici di mio padre.
È come se, senza un motivo apparente, si fosse aperto un file del cuore che credevo perso nei meandri della Vita: con esso si sono fatti vivi i tipici colori degli anni Settanta, un certo profumo che l’aria aveva solo in quel periodo e i punti di riferimento sfalsati di una nanerottola di pochi anni (anch’io sono stata bassa, in effetti…).
Romano era veneto, e questo è solo il primo di una serie di paradossi di tutto ciò che mi ha accompagnato nella vita. Era rosso rosso, alto e attraversato da una forza composta e innervata di fatica e sole; era piuttosto schivo, o forse me lo ricordo così perché a quattro anni mi pareva un gigante a cui sorridere per buona educazione ma da cui essere intimidita.
Romano era uno sfasciacarrozze e la sua fabbrica esplodeva di pezzi di lamiere colorate, ognuna con una storia, ognuna contenitore di vissuti, drammi e spensieratezza. Alcune volte, nel pieno silenzio di una notte come tante c’era chi, passando da quelle parti, giurava di aver sentito quei ritagli cromati lamentarsi in lingue sconosciute e, a ripensarci bene, anche a me era sembrato che con l’arrivo del vento, o nel pieno di una giornata di sole intenso, essi parlassero la stessa lingua di chi li aveva incrociati lungo il cammino.
Andavamo spesso a trovarlo, io e mio padre: era la visita ai parenti che ti sei scelto e quindi una festa, una sorpresa fatta di poco, un’occasione sempre nuova per ripetere le stesse cose o per stare zitti, con la serenità di chi sa che anche il proprio silenzio abbia un valore irrinunciabile. Al nostro arrivo ci venivano incontro due o tre cani senza un occhio, privi di coda e con enormi lingue basculanti, dietro di loro – sempre - un gatto svirgolato.
Romano aveva il carattere selvaggio e cartavetrato della sua terra, ma nascondeva un cuore enorme e appena girato l’angolo delle lamiere, quello stesso cuore, lo si sarebbe potuto scorgere nel mezzo di una gabbia immensa, in pieno stile liberty, in cui teneva un’infinità di canarini di ogni foggia e colore. Li amava come figli, quei pennuti dagli occhi neri come pece, ci parlava, li chiamava per nome: i canarini erano la sua felicità, l’interno tenero e pulito di una vita protetta da lamiere accartocciate.
Me li ricordo bene i canarini di Romano, mai visti esserini più liberi sebbene fossero in gabbia. Mai più sentito un senso di leggerezza come quello, quando i pantaloni erano troppo larghi sul fondo e le felpe erano in puro tessuto acrilico, ma tu eri felice e proiettato. Tante scintille del cuore e della semplicità e sulla strada del ritorno una canzone, sempre la stessa… ve la lascio qui con qualche foto dei due amici da giovincelli.
Buona domenica a Tutti e bacibelli, liberi e colorati come i canarini di Romano!
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